Alex Schwazer: una storia di sport (e non sport)

By Luana Pacia

Di Alex Schwazer non sapevo nulla, se non che da Golden Boy medaglia olimpica passò a “quello che si dopava”, chiudendo così la sua carriera. Netflix ha riportato la luce sul suo caso, grazie al documentario “Il caso Alex Schwazer“, con 4 episodi che fanno riflettere sulla sua ascesa, declino e ricerca di redenzione. Io l’ho guardato tutto in un giorno e questo è quello che ho capito.

L’ascesa e la caduta di Alex Schwazer

La docu-serie di Netflix è completa, inizia proprio con la storica medaglia d’oro di Alex alle Olimpiadi di Pechino del 2008. A soli 23 anni. Difficile capire cosa accada nella mente di un’atleta che si ritrova a vincere così giovane la massima onorificenza nel suo campo. Si conoscono però i meccanismi dello sport, che puntano un riflettore sul vincente e lo spremono a onor di sponsor e pubblicità. E così accadde anche per Schwazer, trainato dalla storia d’amore con Carolina Kostner che, al tempo, era la fatina d’Italia grazie alle sue esibizioni atletiche sul ghiaccio. Il corridore e la pattinatrice, una storia d’amore fatta di medaglie e comparsate televisive dove i due apparivano belli, giovani e felici.

La realtà era ben diversa. Gli inglesi lo sanno bene: “don’t judge a book by its cover“, mai giudicare un libro dalla copertina. Nella mente di Alex questo periodo è definito stressante, troppe pressioni dagli sponsor, troppe limitazioni nella sua vita ma, soprattutto, troppe le richieste dal mondo dello sport. Una volta che hai vinto, dovrai vincere sempre, anche quando non stai bene.

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Comincia ad allenarsi molto e male, una vita scandita da riposo, dieta e allenamento che però non danno nessun buon risultato. C’è poi una molla che gli fa scattare qualcosa nel cervello: il suo allenatore Michele Didoni porta in allenamento degli atleti russi. Questi macinano tempi mostruosi e Alex sta a guardare. Come fanno? Glielo chiede direttamente durante una gara importante e la risposta fu: “training, diet, vitamins and doping“. Allenamento, dieta, vitamine e doping. Semplice.

La questione Epo

L’Epo nello sport fu come una bomba a orologeria. Il documentario descrive molto bene come iniziò e, soprattutto, chi ne fu l’artefice. Il professor Francesco Conconi si occupava, per conto del CONI, di reperire metodi per rilevare la presenza di Epo negli atleti ma, secondo l’accusa, era lui stesso a somministrarla a svariati atleti italiani e non solo. Esperto di talassemia, il medico utilizzava le emotrasfusioni per migliorare le prestazioni degli atleti e c’è anche una condanna in merito che però è andata in prescrizione in quanto i fatti risalivano a decenni prima.

Ritornando a Schwazer, ormai sempre più ossessionato dalla questione Epo. Finì con l’acquistarla in Turchia, provandola poco tempo dopo. La storia è scritta. Venne ritrovato positivo e trascinò con sé diverse vittime, tra cui l’ex fidanzata Carolina Kostner con l’accusa di aver coperto Alex Schwazer durante un controllo. Nello specifico, durante un controllo antidoping disse che il suo fidanzato non era con lei, dichiarando il falso. Ciò contribuì alla sua squalifica per 6 mesi.

Come una tragedia greca, il ragazzo su cui tutti puntavano divenne il ragazzo su cui tutti puntavano il dito. Disprezzato, odiato, cancellato dai registri della buona memoria. Alex Schwazer era proprio quello, l’atleta che nessun atleta sarebbe dovuto diventare. Eppure proprio lui rappresentava in pieno una faccia dello sport: la salute fisica di un corpo non sempre va di pari passo con la salute mentale e Alex non stava bene.

La sua scelta gli costò una squalifica di 4 anni, ma anche una possibilità: quella di capire da che parte stare.

Il ritorno allo sport

La storia di Alex Schwazer è una storia di impegno, sacrificio, di errori grandi quanto una casa e di risalita. In pochi si metterebbero ancora in gioco dopo una condanna per doping, ma lui no. Viene espulso dall’Arma dei Carabinieri, non può mettere piede in pista, gli sponsor non esistono più e si ritrova a fare il cameriere per arrotondare. Nessuno vuole più allenarlo, ma chiede aiuto a una persona: Sandro Codoni, conosciuto nel mondo dello sport come colui che dà la caccia agli atleti dopati.

Proprio lui si ritroverà a essere il suo allenatore, un amico e l’unico punto di riferimento per Alex. Riprendono gli allenamenti in piste “sconsacrate”, in strada, senza dover mostrare nulla a nessuno perché, fondamentalmente, lui è solo “un atleta dopato”. Alex riprende a marciare e a farlo per il piacere di farlo, battendo i suoi stessi record e ritornando finalmente pronto alla meta. Può ricominciare, la squalifica è quasi finita fino a quando un controllo lo troverà nuovamente positivo.

Ed è qui che subentra il giallo, perché lui non ammette di aver preso nulla, è convinto si tratti di un complotto, lotta ferocemente per la sua dignità di atleta redento. Quelle urine sono state manipolate, dice. Ed effettivamente qualcosa di strano c’è. Il suo sogno di partecipare alle Olimpiadi di Rio svaniscono a un passo dalla gara, eppure il tribunale italiano (il doping è un reato penale in Italia) si rende conto di alcune difformità, scagionandolo dall’accusa e rimandando tutto al mittente.

Ci saranno altre azioni legali, nel prossimo futuro, ma è impossibile non creare un legame empatico con questo ragazzo che per 8 anni ha cercato di ritornare alle gare e non ci è riuscito, per cercare il perdono degli altri ma, soprattutto, per dimostrare a se stesso che c’è ancora speranza. Ecco perché la storia di Alex Schwazer è una storia di sport, ma anche di non sport.

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