I carri armati russi, già spostati vicino al confine con l’Ucraina nei giorni precedenti, entrarono nel Paese nella notte del 24 febbraio 2022, mentre i missili di Putin cominciarono a cadere sulla testa dei civili: dopo un anno di guerra, non si vedono spiragli di pace.
Nelle ore subito precedenti l’attacco sferrato da Mosca, nonostante fosse evidente lo schieramento delle truppe russe, nessuno – al di là americani e britannici – era convinto che Putin avrebbe dato seguito alle minacce dei giorni precedenti.
Ma non era un bluff, quello del Cremlino e, settant’anni dopo, ecco una nuova guerra nel cuore dell’Europa. Secondo i piani militari russi, doveva trattarsi di un’azione fulminea: arrivare a Kiev, eliminare il governo in carica e sostituirlo con uno “fantoccio”, dipendente da Mosca. Un’azione che, per il dittatore russo, non meritava neppure la definizione di guerra: la derubricò, fin dal principio, come ‘azione militare speciale’. C’è voluto un anno di morti perché Putin accettasse di chiamarla ‘guerra’, nel discorso alla nazione tenuto due giorni fa.
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Il blitz si è trasformato in guerra di logoramento.
L’obiettivo era la capitale, Kiev, attaccata su tre fronti. Gli Stati Uniti proposero al presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj una via di fuga: lui rispose che chiedeva aiuti militari e non un taxi. Gli ucraini reagirono e Mosca, che non aveva minimamente preso in considerazione la resistenza del popolo ucraino, ha dovuto assistere al fallimento del proprio blitz.
Le armi dell’Alleanza Atlantica hanno fatto sì che gli ucraini respingessero le truppe russe, liberando la prima città simbolo del conflitto: Kherson. Non prima, però, che la Russia si annettesse i territori di quattro regioni, occupate, attraverso un referendum-farsa.
L’Europa riteneva un bluff le minacce di aggressione di Mosca, Putin era certo di arrivare a Kiev senza incontrare resistenza: errori da ambo le parti che, nel corso di questo anno di guerra, hanno indotto Mosca a sostituire più volte gli uomini al comando strategico ed operativo delle truppe, mentre uno stuolo di generali ha reso l’anima a Dio in circostanze tutte da chiarire.
Ma, fin dal primo momento dell’invasione russa, il sostegno a Kiev è stato pressoché unanime: Europa e Nato hanno armato le truppe di Zelenskyj per un intero anno, anche se rifiutando a Kiev quegli armamenti che, secondo le valutazioni dei militari ucraini, avrebbero potuto piegare le sorti della guerra a proprio favore.
La mediazione di Erdoğan.
Con un coinvolgimento totale – ma con diversi livelli di timidezza – da parte dei governi delle nazioni europee e dell’alleanza atlantica, la mediazione è stata affidata alla Turchia di Erdoğan, il dittatore equivicino per definizione: da anni tenta, invano, di far entrare il proprio paese nell’Unione Europea e, nonostante faccia parte della Nato, contemporaneamente, liscia il pelo alla Russia di Putin. Persino nel conflitto siriano, Erdoğan ha deciso di sostenere i ribelli al regime di Assad – mentre la Russia è alleata del dittatore – limitandosi a far combattere i turchi del Kurdistan, nemici giurati del governo di Ankara. Così facendo, Erdoğan ha creduto di risolvere due problemi: dimostrare all’Occidente la propria posizione a favore e liberandosi di bel pezzo di popolo Curdo. Le relazioni diplomatiche pro-pace intessute dalla Turchia non hanno prodotto assolutamente niente, se non l’accensione di vane speranze e poi, conseguentemente, l’ulteriore radicamento delle due nazioni contendenti nelle proprie posizioni.
Oggi, con la Turchia alle prese con un terremoto devastante che ha raso al suo mezza Anatolia e ha provocato più di 40 mila morti, le speranze di pace sono riposte nella Cina. Ma Pechino non ha e non vuole alleati e, in questo momento, preferisce provare a difendere, anche se timidamente, le ragioni di Mosca.
Dopo un anno di guerra, dal Cremlino si prospetta di alzare ulteriormente il livello dello scontro: per farlo, però, dovrebbe far ricorso all’arma nucleare. Con conseguenze inimmaginabili per chiunque.
Nel frattempo, ogni paese coinvolto, seppur indirettamente, nel conflitto, deve fare i conti con la propria situazione interna: sono tanti i cittadini europei – italiani, francesi, tedeschi – che chiedono di interrompere il rifornimento di armi all’Ucraina, spaventati dalla temuta escalation nucleare e dalle conseguenze che il conflitto ha riversato sulle economie europee e mondiali.
Vittime e profughi: numeri spaventosi anche senza conferme.
Secondo i dati dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, dall’inizio del conflitto russo-ucraino ad oggi, i civili morti sono 8.006, di cui 487 bambini, e 13.287 i feriti, 954 dei quali hanno meno di 12 anni. Già spaventosi così, questi numeri, però, sono sottostimati.
L’Ucraina non fornisce cifre, comprensibilmente, per non fiaccare ulteriormente il morale del Paese: solo a Mariupol si parla di oltre diecimila morti. Anche sul numero di soldati uccisi, i numeri sono vaghi da ambo le parti, anche se sia Mosca sia Kiev tendono a minimizzare le proprie perdite e ad enfatizzare quelle inferte ai nemici. Gli analisti indipendenti, però, segnalano che i morti, tra i soldati russi, siano oltre centomila e numeri simili, anche se un po’ più leggeri, si ipotizzano tra le fila di Kiev. Del resto, la Russia ha deciso di mandare a combattere, praticamente a mani nude, anche i propri detenuti, facendo sì che gli ucraini svuotassero i propri depositi di munizioni per respingere gli assalti e trovarsi poi, praticamente disarmati, davanti all’offensiva dei mercenari della Wagner. Questa, almeno, è stata la tattica adottata negli ultimi mesi, dopo l’ennesimo cambio dei vertici militari russi.
A questo punto è impossibile non analizzare i crimini di guerra compiuti. Al di là della narrazione e della propaganda reciproca, il conflitto si è praticamente svolto sotto le telecamere di tutto il mondo: così le fosse comuni ritrovate a Bucha, piene di persone torturate con rara ferocia, sono state mostrate nella loro empietà; e lo stesso è stato per la carneficina commessa nel bombardamento del teatro di Mariupol, dove avevano cercato riparo centinaia di civili sfollati. E, ancora, le città rase al suolo dall’artiglieria pesante e dai missili russi, le centrali elettriche completamente fuori uso, gli stupri e il rapimento dei bambini, deportati – o anche solo portati – in Russia. Tutti crimini puntualmente denunciati dall’Ucraina ma che il conflitto, tutt’ora in corso, non consente di quantificare nella sua spaventosa dimensione reale.
Numeri agghiaccianti anche sul fronte dei profughi: sono 8 milioni gli ucraini che sono riusciti a lasciare il Paese nel corso del 2022, praticamente 1 su 5: il 40% sono bambini, gli altri donne ed anziani, perché gli uomini fino ai 60 anni sono coscritti, richiamati al combattimento e impossibilitati a lasciare il proprio paese. Nel corso di questo anno, però, in molti hanno fatto ritorno in patria, nelle zone liberate e in quelle considerate più sicure. In Italia, i profughi sono ancora circa 150 mila.
Ucraina unita nella guerra. E dopo?
Dell’Ucraina, almeno in Italia si è sempre parlato poco, fino al 24 febbraio dello scorso anno.
Ora si pensa a questo paese come ad una nazione unita, coraggiosa, tenace, resistente, ostinata, coriacea nel respingere l’aggressione russa, nonostante vi convivessero due anime: una fortemente rivolta all’Europa, l’altra – quella filorussa – con le speranze e lo sguardo diretti ad Est.
Il conflitto ha risolto, sanandola temporaneamente, questa divisione ed ha riunito sotto un’unica bandiera tutti i cittadini ucraini, impegnati a difendere la propria vita e la propria terra dall’invasione russa la quale, in verità, non ha risparmiato neppure quelle popolazioni “amiche” che, pure, aveva dichiarato di voler difendere dalle presunte velleità naziste di Kiev. Volodymyr Zelenskyj, contestato da parte dell’opinione pubblica ucraina prima della guerra, ora è considerato il simbolo della resistenza di tutto il Paese. L’immagine dell’ex attore patriota ha travalicato i confini della propria nazione ed ora l’Ucraina sembra inarrestabilmente in corsa verso l’abbraccio di Bruxelles che, però, prima della guerra, non riteneva Kiev ancora in grado di condividere i valori europei: la corruzione dilagante e quelle pericolose pulsioni nazionaliste spaventavano l’Europa. Ora, che entrare a far parte dell’Ue e, persino, della Nato, non sembra più un tabù, quale sarà il destino dell’Ucraina alla fine del conflitto dipende proprio dai paesi che ne stanno sostenendo la resistenza.
E, infatti, i capi di stato e di governo che dialogano con Zelenskyj continuano a proporre le loro soluzioni per la ricostruzione: perché l’Ucraina che sopravvivrà al conflitto sarà comunque una distesa di macerie, di miseria, di distruzione. Sarà, probabilmente, teatro di una emigrazione di massa e del rinfocolare di odio e risentimento, sentimenti solo temporaneamente accantonati.
Comunque vada, la ferita provocata dall’aggressione russa, mostrerà la carne viva degli ucraini ancora a lungo.
Putin, lo zar, e la Russia dei diritti negati.
Quanto alla Russia, fino allo scorso 24 febbraio, era considerata una sorta di grande orso dormiente, in un’apparente condizione di democrazia, ma autocraticamente guidata dal nuovo zar, Vladimir Putin, che ha alternato la guida del paese ricoprendo, di volta in volta, la carica di capo del governo e, oggi, di presidente.
Dopo il 24 febbraio, il mondo occidentale lo ha riscoperto come avversario comune e ne teme le spinte nazionaliste. E, in verità, la Russia di Putin non ha mai fatto nulla per nascondere i propri obiettivi: la libertà di espressione, già fortemente limitata in passato, è praticamente ridotta al silenzio totale. Persino pronunciare la parola “guerra” è considerato non un tabù ma un reato. Questo nonostante, nel corso del discorso alla nazione di due giorni fa, per la prima volta, proprio Vladimir Putin abbia apertamente parlato di conflitto e abbia annunciato gli aiuti economici ai soldati ritornati feriti dal fronte e alle famiglie dei caduti.
I diritti civili, già compressi, sono stati definitivamente azzerati, soprattutto dopo gli arresti di massa nei confronti dei russi che manifestavano, in patria, contro l’aggressione ai danni dell’Ucraina. Buona parte di quei cittadini, ora sono mandati a morire, praticamente disarmati.
Ridotta letteralmente a zero la propria opposizione interna, Putin può liberamente concentrarsi sul disastro della sua azione militare: perdite pesantissime, un milione di russi impiegati nel conflitto, i danni economici provocati dal crollo del mercato dell’energia e che Mosca sta tentando di recuperare attraverso un accordo con la Cina, le sanzioni che colpiscono la ricchezza interna. Mezzo mondo ha chiuso le frontiere in faccia a Putin e ai cittadini russi ed egli stesso rischia di essere chiamato al banco degli imputati nei tribunali internazionali.
Avvitato su sé stesso, lo zar non può far altro che chiamare a raccolta tutto il popolo russo, facendo leva sui valori tradizionali e sullo spirito nazionalista, quello della grande madre Russia. E sventolando la minaccia nucleare.
Ora gli Stati Uniti sembrano crederci davvero.
Quando gli Usa proposero a Zelenskyj ed alla sua famiglia un’uscita dal Paese, alla vigilia dell’attacco russo, non credevano che gli ucraini sarebbero stati in grado di resistere all’avanzata di Mosca, figurarsi di contrastarla. Dopo poco, però, si sono resi conto che la reazione di Kiev era sostenibile e, nell’arco di poco, hanno cominciato garantire nei fatti, ovvero con le armi, la resistenza ucraina. A parte mettere gli “scarponi sul campo” – “boots on the ground”, letteralmente – gli americani hanno massicciamente inviato tutto il resto: aiuti economici, logistici e militari. Il presidente statunitense Jo Biden, abbastanza avanti con l’età da ricordare il Vietnam e lo slogan “Yankees go home” ripetuto dai pacifisti di mezzo mondo, americani in testa, ha percepito il cambio di rotta. E si è letteralmente messo alla testa dell’alleanza occidentale, mobilitata contro le mire espansionistiche russe. L’ultima dichiarazione del presidente americano, a far da contraltare al discorso alla nazione di Putin, tenuto in Polonia a distanza di poche ore – ma, più ancora, la visita (quasi) a sorpresa a Kiev – ha sottolineato come gli Stati Uniti continueranno a sostenere militarmente – ed economicamente – l’Ucraina.
La Nato e l’Europa.
Persino la Nato – che in molti, in Europa, consideravano una entità ormai inutile – ha ritrovato la propria ragion d’essere. Superata la fase Trump, che vedeva l’alleanza atlantica come un buco nero finanziario ingordo solo di dollari americani, la Nato oggi ha un ruolo di capofila nel conflitto russo-ucraino. Dalle politiche trumpiane, che ritenevano ormai superata la necessità di una difesa comune nei confronti della più dialogante Russia, il dietrofront è stato clamoroso. Oggi la Nato rappresenta la difesa europea alle ambizioni nazionalistiche russe e l’Ucraina è stato il mezzo attraverso il quale risvegliare la leadership europea da un letargo durato troppo a lungo e che non ha impedito l’esplosione del conflitto, nonostante la guerriglia al confine tra Russia e Ucraina fosse una realtà fin dal 2014.
Ora, entrare a far parte della Nato, è un obiettivo anche di Svezia e Finlandia, paesi storicamente neutrali, per non parlare delle fragilissime ed esposte repubbliche Baltiche e della stessa Ucraina. E, prima o poi, l’Alleanza Atlantica dovrà anche interrogarsi approfonditamente su ruolo della Turchia, la cui posizione non è mai apertamente schierata da un lato oppure dall’altro. E, di sicuro, anche l’Europa dovrà cominciare a pensare ad una propria Difesa comune, aprendo, una stagione di altrettanto sicure controversie con i paesi membri.
E il resto del mondo?
Forse non siamo davanti ad un nuovo ordine mondiale, ma di certo si stanno ridefinendo le alleanze: la guerra scatenata dalla Russia ha compattato i paesi più influenti e ricchi del pianeta non tanto a sostegno dell’Ucraina, quanto nel fronte opposto a Mosca. Schierati apertamente con Putin, pochi paesi e di scarso impatto.
Quelli che potrebbero fare la differenza – Cina, India, Brasile e Sudafrica – cercano di non prendere una posizione netta: vorrebbero rimanere in disparte, senza compromettere i propri rapporti con il Cremlino e confidando di vedere, magari, ridimensionati il peso di Stati Uniti ed Europa.
Molte speranze di pace degli occidentali sono riposte nella Cina che, però, non sembra intenzionata a radicalizzare il proprio sostegno a favore di Mosca, né a rompere definitivamente con gli Usa. Pechino ha bisogno di fare affari con tutti, così come il mercato cinese fa gola ad Europa e Stati Uniti. Quindi, i paesi che non si schierano, sembrano attendere l’esito della guerra rimanendo a guardare dalla finestra.
Continuano le schermaglie a colpi di tecnologia: dagli Usa arriva ChatGPT e in Cina si affrettano a metterla al bando. Perché – sembra essere il messaggio – la Cina può fornire materie prime e mano d’opera a basso costo, ma la spinta delle idee viene sempre da Washington.
L’Italia, tra ‘Guerra e Pace’.
La continuità della posizione del governo italiano, espressa inizialmente da Mario Draghi e confermata da Giorgia Meloni ora, nel garantire pieno appoggio al governo ucraino, sostenendolo militarmente, economicamente e abbozzando progetti per la ricostruzione post-bellica, non ha mai vacillato. Nonostante l’opposizione interna, Roma si è sempre fermamente dichiarata pro Ucraina e pro Nato. Ed inossidabile è apparsa anche la determinazione del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che ha sempre garantito appoggio incrollabile alle ragioni di Kiev, nonostante l’avvicendarsi di due governi e le voci di dissenso all’interno del panorama politico nazionale.
In verità però, sembra che i numeri del nostro supporto siano piuttosto inferiori a quelli di molti altri paesi europei, anche perché i dati sulle forniture militari italiane sono top-secret.
E, però, pur vero che il sostegno italiano si inserisce nella sommatoria complessiva degli aiuti comunitari: l’Unione Europea ha già sostenuto l’Ucraina con circa 30 miliardi di euro e ne ha stanziati altri 18, tutti finanziati dagli stati membri. Quindi è vero che, autonomamente, forse, abbiamo investito meno di altri, ma è pur vero che, nei 50 miliardi di euro, mal contati, destinati a Kiev, ce ne sono decisamene parecchi di italiani. E non senza reazioni da parte dell’opinione pubblica e dei partiti.
La dichiarazione sprezzante di Silvio Berlusconi nei confronti Zelenskyj ha imbarazzato non poco la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, alle prese con il malpancismo interno alla propria maggioranza, nei confronti della posizione pro – Kiev assunta dal governo.
Le simpatie per Putin e per la Russia troppo sottolineate da Matteo Salvini e da Silvio Berlusconi, però, non hanno impedito agli alleati di governo di sottoscrivere tutte le misure varate a sostegno dell’Ucraina.
Ma è evidente che l’opinione pubblica italiana è spaccata in due e che i due leader minori della coalizione di governo sentono il bisogno di parlare ai propri sostenitori in dissenso con gli aiuti militari. Forti critiche arrivano anche dal Movimento 5 Stelle e da buona parte della sinistra. Quanto al PD, la scelta della nuova leadership darà voce alla futura posizione del partito democratico.
Buona parte dell’opinione pubblica non ha mai fatto mistero di temere il coinvolgimento del nostro Paese nel conflitto, anche se non direttamente implicato nelle azioni di guerra: la paura dell’atomica, l’impennata dei prezzi dell’energia in conseguenza degli embarghi alla Russia, la chiusura di alcuni mercati del nostro export, sono stati accolti da moltissimi italiani come il colpo di grazia ad un Paese che ancora, al momento dell’aggressione russa, faceva i conti con il Covid e con i disastri provocati dalla pandemia.
Tante sono state, in questo anno, le iniziative a favore della pace o, comunque, dirette ad interrompere il riarmo di Kiev.
E’ prevista oggi la marcia PerugiAssisi per ribadire il no alla guerra mentre, simbolicamente, domani, 24 febbraio, a Roma, il Palazzo Senatorio sarà illuminato con i colori della bandiera ucraina dalle ore 18 alle ore 24, in segno di solidarietà e vicinanza al popolo ucraino. E questa è un’iniziativa del Campidoglio romano, tanto per dirne una. Perché per ogni manifestazione a favore, se ne registra un’altra contraria.
L’effetto della guerra sulle spalle dei più poveri.
Durante questo anno di guerra, ci siamo accorti di quanto si dipendesse all’Ucraina e dalla Russia per la fornitura di alcune risorse, e non si tratta solo di gas. I due paesi sono tra i maggiori esportatori di prodotti agricoli e di fertilizzanti, indispensabili in agricoltura.
L’unico successo ascrivibile al tavolo negoziale organizzato da Erdoğan, è quello relativo alla ripresa delle esportazioni di grano dall’Ucraina vero i paesi più poveri. Ma la crisi ha provocato un’impennata dei prezzi, su vasta scala, di quasi tutto il comparto alimentare, costringendo milioni di persone alla fame ed alla povertà.
Quanto al gas ed ai prodotti petroliferi, la guerra ha messo in ginocchio oltre 140 milioni di persone, costrette a fare i conti con prezzi folli e a rinunciare a riscaldamento ed acqua calda.
Le sanzioni, poi, in un effetto domino, hanno portato limitazioni al commercio di alcuni beni e difficoltà nel trasporto, costringendo alla recessione intere nazioni e scaricando, sulle fasce più deboli delle popolazioni, il peso ultimo della crisi innescata dalla guerra.
Si combatte in Ucraina, ma gli effetti si avvertono in tutto il pianeta.
L’Europa verso obiettivi green. Ma il processo è a rischio.
La dipendenza da Mosca in materia energetica, per molti paesi europei, era praticamente totale. La Russia forniva gas e prodotti petroliferi lavorati a prezzi più convenienti e molti paesi, in primis la Germania, sono ancora profondamente dipendenti dalle forniture russe. Molte nazioni sono scese a patti con Mosca per importare idrocarburi a basso prezzo e questo ha, in larga parte, spiegato la riluttanza dell’Europa a prendere una posizione precisa dopo l’annessione della Crimea, nel 2014, alla Russia.
Dopo l’aggressione del 24 febbraio 2022 ai danni di Kiev, però, l’Europa non ha più potuto nascondersi e ha dovuto liberarsi della schiavitù energetica che la legava a Mosca.
In tempi rapidi, ci si è riconvertiti verso altri paesi fornitori, i cui equilibri politici appaiono piuttosto instabili ma, al momento, utili per liberarsi dal giogo energetico russo. Il valore totale dell’’import europeo di gas e di petrolio da Mosca è precipitato dal 36% al 9% e, dopo il picco folle dei prezzi, ora i valori stanno tornando verso un livello più sopportabile per le economie europee. Ma potrebbe trattarsi soltanto di una tregua temporanea, in attesa che la situazione geopolitica del pianeta si riassesti. E il quadro è fortemente influenzato, ancora una volta, dalle scelte cinesi.
La spinta green che si è data l’Ue non sembra farsi influenzare dalla crisi russo-ucraina: il voto di alcuni giorni fa del parlamento europeo ha confermato lo stop alla produzione delle auto diesel e benzina per il 2035. Ma sono parecchi i paesi che hanno riattivato le centrali a carbone, per compensare la chiusura dei rubinetti del gas russo e forse la transizione verso un futuro green potrebbe rivelarsi troppo impegnativa in questo scenario.
Dopo un anno di guerra, la pace sembra ancora lontana.
Cosa ci sia da aspettarsi ora è difficile da pronosticare. Di certo, la Russia sta ammassando uomini e mezzi al confine ma non è detto che intenda sferrare una massiccia offensiva già da adesso o se preferisca attendere la più utile primavera. A Kiev, intanto, stanno arrivando nuove armi grazie alla Nato e ai paesi europei: carri armati, sistemi di difesa aerea, munizioni. L’obiettivo di Kiev, condiviso da tutti gli alleati, è la riconquista di tutti i territori sottratti da Mosca e potersi, così, sedere ad un tavolo negoziale da una posizione di forza. Diversamente, si tratterebbe di una resa e Zelenskyj ed i suoi alleati, a questo punto, escludono questa opportunità.
Se il conflitto durasse ancora a lungo – e sembra l’opzione più probabile – la Cina potrebbe decidere di far sentire il proprio peso nei confronti di Putin, su cui anche le sanzioni dovrebbero fare molta più presa. Fino ad ora, infatti, gli embarghi a carico di Mosca sono stati neutralizzati dalle riserve interne di valuta e dagli aiuti provvidenziali di Pechino e degli altri paesi che si sono sostituiti ai mercati occidentali ormai inaccessibili ai russi. Quanto agli americani, pur se decisi a non lasciare la vittoria a Putin, non perseguono un cambiamento di regime, troppo rischioso visto il numero di falchi che potrebbero prendere il posto del presidente zar. Sarà l’Europa a dover fare lo sforzo maggiore, sia in termini diplomatici sia nel ruolo attivo di sostegno alla difesa ucraina. Sullo sfondo, l’ombra del primo ministro cinese, Xi Jinping che respingerà il più possibile un ruolo ed un coinvolgimento diretto.
Ma i tempi non sembrano maturi per una pace o una risoluzione diplomatica. Dopo un anno di guerra, la fine sembra ancora lontana: a meno che Putin non decida il contrario.