Jobs Act, divisione politica netta tra Renzi e Schlein
La decisione di firmare per l’abolizione del Jobs Act ha creato una netta divisione tra Italia Viva e il Partito Democratico, generando tensioni all’interno del panorama politico. Matteo Renzi, totalmente in disaccordo con la scelta di Elly Schlein, sostiene che il PD si sta allontanando sempre più dai principi democratici che hanno portato alla creazione della famosa riforma del lavoro del 2013.
“La decisione di Elly Schlein di firmare per l’abolizione del Jobs Act? Non avrebbe potuto darci un aiuto migliore per la campagna elettorale. Direi che questa è davvero la fine del PD”, afferma Renzi, senatore di Italia Viva e candidato nella lista Stati Uniti d’Europa. “Il referendum mette in discussione una legge fondamentale che ha caratterizzato la mia stagione politica quando ero nel PD e il PD era il partito di maggioranza.
Il Jobs Act – continua Renzi – era stato annunciato durante la campagna per le primarie del 2013, e il coordinatore della mia mozione era l’attuale presidente del PD, Stefano Bonaccini. Marianna Madia era la responsabile del lavoro, Giuliano Poletti era il ministro del Lavoro, Pier Carlo Padoan era l’uomo che ha trovato i fondi e Andrea Orlando, Dario Franceschini e Roberta Pinotti hanno votato a favore in Consiglio dei ministri. Mi sembra evidente che questa sia la fine del PD, è come se avessero rinnegato le unioni civili”.
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Qual è la linea politica del Partito Democratico in materia di lavoro? Il Jobs Act era un punto di forza del PD con Renzi, ma è sempre stato attaccato dalla Cgil come un provvedimento negativo. Il PD si sta trasformando in una nuova Cgil? Questa è un’accusa che arriva dai partiti di destra, dagli osservatori del movimento e anche dai critici interni al PD.
Renzi cita le parole di Bonaccini: “Chi vuole può firmare il referendum della Cgil, ma noi continueremo a lottare per le nostre battaglie”. Infine, Renzi lancia un appello ai riformisti all’interno del suo ex partito: “Ai riformisti dico: cosa state ancora facendo lì dentro? La certezza di una ricandidatura vi porta davvero a rinunciare a ciò che siete stati?” (Il Foglio).
Il partito democratico accusato di essere una nuova Cgil ma anche spalla di Giuseppe Conte.
Esaminiamo alcuni punti di vista della destra su quanto sta accadendo. Notano che Matteo Renzi si oppone sia al PD che a Giuseppe Conte, creando così una divisione che potrebbe essere a loro vantaggio. Anche nella destra, l’abolizione del Jobs Act è definita come il “referendum della Cgil”. Hanno osservato che qualsiasi riforma del lavoro o del welfare che non rientra nelle loro scelte politiche non viene accettata.
Un esempio è il famoso Reddito di Cittadinanza, approvato solo perché Matteo Salvini era al governo e in parte supportato anche da Forza Italia di Silvio Berlusconi. “L’abolizione del Jobs Act – come riportato sul Giornale – è solo l’ultimo tassello di una trasformazione già avviata da anni”. Il PD si sta spostando a sinistra, quindi non ci aspettiamo altre affermazioni o visioni dalla destra. La campagna per la raccolta di firme per il salario minimo, fissato per legge a nove euro l’ora, con il M5S di Giuseppe Conte, non passa inosservata. C’è anche l’opposizione all’abolizione del Reddito nel Governo Meloni.
Il Jobs Act era una riforma unica e rivoluzionaria del Partito Democratico. È chiaro che dovevano essere fatte delle modifiche con l’ex segretario ora alla guida di un altro importante partito nell’area della sinistra democratica. Elly Schlein non condivideva alcune scelte, come l’abolizione dell’articolo 18. Con la Cgil, era in corteo, fortemente contraria alla famosa riforma del diritto del lavoro. Schlein punta a una nuova strada, ma quanto è unica? I riformisti difendono ancora il Jobs Act come elemento identificativo. Sostengono la sostituzione, ma non la rinuncia, cosa che si fa sostenendo l’abrogazione nel referendum.
Le parole di Bonaccini sul Referendum e altre posizioni sull’abrogazione del Jobs Act
Il salario minimo è un’altra grande battaglia che caratterizza il Partito Democratico e non è molto lontano, anche questo programma, dai valori del Movimento Cinque Stelle. Questo è un elemento spesso riportato dalla destra e, talvolta, anche dai renziani. Stefano Bonaccini, in qualità di presidente, cerca di abbassare i toni di scontro all’interno del Partito.
La battaglia sul salario minimo deve fare da collante, mentre sulla scelta di firmare contro il Jobs Act ognuno è libero. Questa posizione la esprime con una nota. “Evitiamo di schiacciare il dibattito su una iniziativa referendaria – legittima, ci mancherebbe – da parte della Cgil: come ha chiarito la segretaria Elly Schlein, il partito non si schiera su autonome iniziative di altri – su cui ciascuno è libero di firmare o meno sugli specifici punti – ma si unisce sulle nostre battaglie da portare in Parlamento e davanti ai cittadini. A partire da quella in corso con la nostra proposta di legge di iniziativa popolare, che prevede l’istituzione di un salario minimo legale. Questa sì sarebbe una novità per l’Italia”, afferma Bonaccini.
Sintetizziamo altre posizioni sul referendum abrogativo e anche sulle scelte di Schlein. Alcuni membri del Partito Democratico, come Dario Franceschini e Matteo Orfini, non sostengono l’abrogazione del Jobs Act, mentre Andrea Orlando è ancora indeciso. Bonaccini, pur sottolineando altre priorità del partito, non intende polemizzare con Schlein. Alcuni membri, come Pina Picierno e Giorgio Gori, si oppongono alla firma, mentre Dario Nardella sta riflettendo. Altri, come Alessandro Alfieri, ritengono che il Jobs Act abbia avuto impatti positivi e criticano il tempismo della proposta referendaria della Cgil.