Alessia Pifferi: ipotesi di reato nei confronti di legale e 2 psicologhe; quando l’avvocato non può difendere

By Ana Maria Perez

Alessia Pifferi e l’indagine dl P.M. nei confronti di legale e psicologhe

Di questo triste caso di cronaca ve ne abbiamo già parlato da ultimedalweb. Alessia Pifferi è accusata di avere ucciso la figlia di 8 mesi, Diana, abbandonandola da sola in casa per 6 giorni. Il caso, com’è comprensibile, è stato (e continua a essere) molto mediatico, tenuto conto dell’età della bambina e del contesto in cui è deceduta. Iniziato il processo, la vicenda si complica da quando, mercoledì 24 di gennaio (ieri), i nomi del legale della donna e di 2 psicologhe del carcere di San Vittore che hanno lavorato sulle condizioni mentali di Alessia, sono stati inseriti nel registro degli indagati. Perché?

In questo post vi raccontiamo perché le tre professioniste sono sotto indagine, quello che è accaduto dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia e come ha risposto intanto l’ordine degli avvocati di Milano. Come dire? Sotto accusa i super poteri del P.M. nei confronti della difesa: “Quando il difensore diventa inabilitato ad eseguire il proprio mestiere!”

alessia pifferi

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L’indagine per favoreggiamento e falso ideologico

Le psicologhe del carcere di San Vittore, Paola Guerzoni e Letizia Marazzi, in concorso con l’avvocato Alessia Pontenani, sono indagate per favoreggiamento e falso ideologico e sono state perquisite ieri, mercoledì 24 gennaio, dalla polizia penitenziaria. Le psicologhe avevano redatto una relazione, dopo avere effettuato un test sul quoziente intellettivo di Alessia Pifferi. Stante i test, la donna avrebbe un quoziente intellettivo pari a 40; per capirci, quello di una bambina di 7 anni. Per il Pubblico Ministero, le due psicologhe avrebbero svolto una “vera e propria attività di consulenza difensiva, non rientrante nelle loro competenze”.

L‘avvocato Alessia Pontenani, legale di Alessia Pifferi, avrebbe, invece, attestato “falsamente” che la donna aveva un “deficit grave”. A tale proposito, secondo il pubblico ministero Francesco De Tommasi, sarebbe stato usato un test non “utilizzabile a fini diagnostici e valutativi“.

La Procura aveva già presentato una relazione ad ottobre che smontava le analisi sulla Pifferi fatte finora: “La persona che si vuole qualificare come gravemente carente, tanto da avere bisogno di assistenza quotidiana e da non sapersi esprimere, era in grado di vivere da sola, aveva conseguito un diploma di licenza media inferiore ed ha interrotto gli studi al secondo anno della scuola superiore per occuparsi della madre in seguito ad un grave incidente subito da quest’ultima“.

E ancora: “Ha avuto relazioni di amicizia e affettive ed è stata sposata per 12 anni, evidentemente gestendo la casa e la sua vita. Presenta competenze comunicative congruenti con il livello di istruzione raggiunto, partecipa ad eventi sociali, non si rilevano significative difficoltà nel prendersi cura di se stessa, e l’imputata ha dimostrato di poter svolgere attività lavorative di carattere pratico“.

Questa volta De Tommasi ha agito “da solo” nell’attività investigativa degli ultimi due mesi, senza coinvolgere né informare il pm contitolare del processo, Rosaria Stagnaro, e i due procuratori aggiunti Alessandra Dolci e Letizia Mannella.

pifferi e pontenani
Alessi Pifferi con l’avvocato Pontenani

Le “prove” del Pubblico Ministero

Il pm Francesco De Tommasi insiste nell’affermare che le due professioniste avrebbero fornito alla donna sotto processo “una tesi alternativa difensiva (sottinteso un possibile vizio di mente)l’avrebbero manipolata”.

Il presunto falso ideologico riguarda “il diario clinico” redatto dalle psicologhe. Tuona il P.M.: “Il test psicodiagnostico di Wais non era fruibile né utilizzabile a fini diagnostici e valutativi, in quanto non rispondente alle metodiche di somministrazione e documentazione previste dalla manualistica e dalle buone prassi di riferimento“. 

Inoltre, secondo De Tommasi, “gli esiti del test erano incompatibili con le caratteristiche psichiche effettive della detenuta, per come emergenti anche dagli stessi colloqui intercorsi in carcere tra la Pifferi e le due psicologhe, colloqui anch’essi falsamente annotati nel diario clinico, con riferimento ai presupposti del “monitoraggio” a cui la Pifferi veniva sottoposta, in realtà inesistenti giacché la donna non era un soggetto a rischio di atti anticonservativi e si presentava lucida, orientata nel tempo e nello spazio, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali e determinata“. 

In poche parole, tra il 21 luglio 2022 e il 3 maggio 2023 il lavoro delle due psicologhe, coadiuvato dall’avvocato Pontenani, sarebbe stato orientato a “fornire così alla Pifferi, falsificando l’anzidetta diagnosi, una base documentale che le permettesse di richiedere e ottenere in giudizio – eventualmente con il filtro di un’ulteriore consulenza di parte – la tanto agognata perizia psichiatrica sulla di lei imputabilità“.

Le intercettazioni in carcere e i farmaci trovati nella perquisizione in casa di una delle due psicologhe

Stanti gli atti d’indagine, risulterebbe da alcune conversazioni intercettate che una delle due professioniste avrebbe detto che con la sua attività voleva scardinare il sistema, “goccia dopo goccia“, salvando quelle che lei riteneva vittime della giustizia. Agli atti ci sarebbe anche una telefonata tra la psicologa l’avvocata, nella quale le due si sarebbero complimentate a vicenda dopo gli esiti del test psicodiagnostico di Wais.

Intanto, trapela dall’indagine che le perquisizioni nell’abitazione della psicologa 58enne hanno rilevato la presenza di molti farmaci e di 10mila euro in contanti. Adesso gli inquirenti dovranno capire da dove provenivano tali medicinali

I sospetti su altri casi

La Procura di Milano non si ferma qui, a quanto pare. L’indagine coinvolge anche altri casi “seguiti” dalle professioniste. Per questo sono state sequestrate le cartelle cliniche di altre detenute, tra cui Lucia Finetti, la cartomante condannata in primo grado all’ergastolo per l’omicidio del marito, e Patrizia Coluzzi, recentemente condannata a 12 anni dalla Corte di assise di Pavia per aver soffocato la piccola figlia Edith del marzo 2021.

Il parere dell’ordine degli avvocati e dei legali delle indagate: una forzatura incomprensibile

Intanto il difensore dell’avvocato Pontenani, Corrado Limentani, parlando con Il Corriere della Sera, ha criticato fortemente la scelta del P.M., affermando che “indagare i potenziali testi e il difensore durante il processo, anziché discuterlo davanti al giudice, ha come conseguenza quella di screditare l’attendibilità dei testi, intimorire i periti che stanno lavorando sul caso e, soprattutto, indebolire il ruolo dell’avvocato fino a costringerlo a rinunciare all’incarico“.

Da parte sua, l’avvocato Mirko Mazzali, che assiste Paola Guerzoni (psicologa), solleva un dubbio sulla perquisizione in casa della sua assistita: “Sorge il fondato sospetto che tale perquisizione nasconda finalità estranee alla condotta commessa dalla mia assistita e voglia indagare sulla sua attività lavorativa complessiva, accusandola più per il merito dei pareri espressi che per il metodo con il quale si è pervenuti a tali pareri. Il provvedimento è finalizzato alla ricerca di documenti in possesso dell’istituto penitenziario e quindi facilmente rintracciabili (….) pone sotto sequestro cellulari e computer per cercare fantomatici rapporti con una detenuta e (…) documentazione concernente altre detenute non oggetto dei capi di imputazione“. 

Anche l’Ordine degli avvocati di Milano ha diramato una nota dal titolo “L’avvocato in pericolo siamo tutti noi“. In sostanza, il comunicato, oltre a condividere la tesi dell’avv Mazzali, dice:

Non si comprende tale urgenza rispetto a un atto istruttorio il cui risultato è tuttora ignoto, e il cui perito incaricato si troverà a dover fare valutazioni nel merito con lo spettro di un’indagine, che potrà sempre essere estesa. Non si comprende la ragione del mancato rispetto delle scansioni fisiologiche del processo, che (sul modello previsto per i testimoni dall’art. 207 c.p.p.) dovrebbero semmai prevedere una richiesta di trasmissione atti fatta dal P.M. a conclusione del processo stesso. 

Eppoi:

Non si comprende, in verità, la necessità di ipotizzare un reato di falso in capo al difensore che ha utilizzato un documento ufficiale del carcere per formulare le proprie richieste di prova: ma non intendiamo entrare nel merito. Non possiamo non stigmatizzare queste modalità di azione del P.M. È difficile, mettendosi nei panni della collega, non avere la sensazione di un implicito invito a fare un passo indietro. E non vogliamo consentire che una situazione del genere passi inosservata. La funzione difensiva non deve essere mai in pericolo“.

paola guerzoni

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